Giurisprudenza del lavoro

Giurisprudenza del lavoro

Responsabilità colposa per l’ad della capogruppo per i fatti verificatisi nella controllata

Corte di Cassazione Sentenza n. 32899 del 6 settembre 2021

giovedì 23 settembre 2021

La Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, relativamente all’incidente ferroviario di Viareggio del 29 giugno 2009, ha stabilito che è possibile attribuire una responsabilità per colpa anche a carico dell’amministratore delegato della capogruppo per i fatti verificatisi in una controllata.

Per gli ermellini infatti, da un’attenta valutazione del contenuto concreto dei poteri detenuti, è “agevole” riconoscere all’amministratore delegato della capogruppo un insieme di poteri in grado di incidere sulla gestione del rischio affidata sul piano operativo alle società controllate.

 

 

Auto aziendale: il mancato rispetto del Codice della strada esclude la responsabilità del datore

Corte di Cassazione. Sentenza 27 agosto 2021, n. 23527

 

La Cassazione Civile, ha respinto il ricorso di un dipendente finalizzato al conseguimento della rendita e dell'indennità giornaliera per l'inabilità temporanea da parte dell'Inail, dovute per le lesioni da infortunio sul lavoro, a seguito di un incidente con l'auto aziendale. È stato accertato che lo stesso aveva tenuto una condotta di guida in violazione dei limiti di velocità in quanto su quel tratto stradale mentre il limite è di 70 km/h il dipendente viaggiava a ben 104,435 km/h; peraltro dai controlli è anche emerso che lo stesso guidava in stato di alterazione da assunzione di sostanze stupefacenti (cocaina).

Una condotta, quindi, in chiara violazione con gli obblighi posti dal Codice della strada e che è riconducibile al cd. rischio elettivo, ossia a una condotta personalissima del lavoratore che risulta avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa e come tale, quindi, idonea a interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata. Di conseguenza ciò esclude la responsabilità del datore di lavoro.

 

 

Il datore che persegue una politica di neutralità può vietare ai lavoratori l’utilizzo di simboli legati a convinzioni filosofiche, religiose o politiche sul luogo di lavoro

Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Cause riunite C-804/18 e C-341/19

 

La Corte di Giustizia Ue interviene in merito alla legittimità di una norma interna di un’impresa che vieta ai lavoratori di indossare qualsiasi segno visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose sul luogo di lavoro.

In particolare, la Corte asserisce che il suddetto divieto può essere giustificato dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali. Ciò a condizione che

  • la giustificazione deve rispondere ad un’esigenza reale del datore di lavoro (che spetta a quest’ultimo dimostrare prendendo in considerazione le aspettative legittime dei propri clienti o utenti e le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in assenza di una tale politica, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui queste ultime si iscrivono),
  • la politica di neutralità deve essere perseguita in modo coerente e sistematico (di modo che la differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale politica di neutralità) e, infine,
  • il divieto si deve limitare allo stretto necessario (tenuto conto della portata e della gravità delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un siffatto divieto).

 

La pausa non è riposo se il dipendente può essere richiamato in servizio

Corte di giustizia dell’Unione europea. Sentenza del 9 settembre (causa C-107/19)

 

La pausa concessa al dipendente, che non gli permette di gestire il proprio tempo perché tenuto a effettuare un eventuale intervento rapido, rientra nell’orario di lavoro e non può essere qualificata come periodo di riposo. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo con la sentenza del 9 settembre (causa C-107/19 ), che ha al centro l’interpretazione della direttiva 2003/88 su taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (recepita in Italia con Dlgs 66/2003, modificato dal 213/2004).

Questa conclusione vale anche se il dipendente non è obbligato a rimanere sul luogo di lavoro perché, in tutti i casi in cui i vincoli imposti «siano di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà» di gestire liberamente il tempo, si è in presenza di un tempo che rientra nell’orario di lavoro.

Con un’ulteriore precisazione: la circostanza che le interruzioni dei periodi di pausa siano occasionali e imprevedibili non incide sulla qualificazione di questi periodi se il termine per riprendere l’attività professionale è tale da limitare in modo significativo e oggettivo la gestione del proprio tempo. Così va interpretata la direttiva e a questo devono attenersi i giudici nazionali disapplicando il diritto interno contrastante anche nei casi in cui la Cassazione dia altre indicazioni ai giudici di merito.