Nel merito, la Suprema Corte ha affermato che l'appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito della "organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore", costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore, senza che l'appaltante eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell'appaltatore.
Di contro, esso rappresenta una interposizione illecita di manodopera laddove il potere direttivo e organizzativo sia affidato al formale committente, restando irrilevante che manchi in capo a quest'ultimo l'intuitus personae nella scelta del personale, atteso che, nelle ipotesi di somministrazione illegale, è frequente che l'elemento fiduciario caratterizzi l'intermediario, il quale seleziona i lavoratori per poi metterli a disposizione del reale datore di lavoro.
Nel caso specifico, è stato accertato che il lavoratore era inserito nell’organizzazione del committente, con i cui lavoratori si scambiava di turno e da cui veniva anche rimproverato e sottoposto a reclami gerarchici in caso di non perfetta esecuzione della prestazione di pulizia dei locali che costituiva, peraltro, l’obbligo specifico dell’attività appaltata. In conclusione, la Corte ha affermato che il lavoratore era sganciato dal contesto di appartenenza lavorativa, sottratto ad ogni controllo di efficienza e da ogni iniziativa disciplinare da parte della cooperativa, che aveva praticamente abdicato ogni controllo sul lavoratore in favore dei dipendenti della committente.